giovedì 4 novembre 2010

Paul Beel. Apocatastasi

Capita a volte, ahinoi sempre più raramente nello sciocchezzaio dilagante nella nostra contemporaneità, che anche l’addetto ai lavori con l’occhio presuntuosamente più addestrato s’imbatta in un “qualcosa” che ne blocca l’attenzione, s’incidenti nel caso specifico con un’immagine, una, una sola fra le tante che quotidianamente gli assediano bombardano le retine, che lo induca a fermarsi ed a porsi il quesito più fondamentale ed elementare che esista: perché? Domanda che, in quel caso più che in altri, s’insinua e lavora, scava, logora… Fino a diventare ossessione: quell’immagine, o quelle immagini come nel caso di Paul Beel, hanno seminato un piacevole terrore e insinuato il dubbio sull’esistenza di un mistero la soluzione si rende più che mai necessaria.
Perché l’immagine apparentemente inquietante e tutt’altro che “facile” di uno dei tanti antieroi beeliani del nostro tempo risulta così irresistibile? Perché da quelle solitudini così lacerate e apparentemente inquietanti scaturisce un’irrefrenabile forza seduttiva? Cosa sta alla base di quell’evidente contraddizione?
Una risposta in termini assoluti non esiste. Eppure rimane ancora evidente il dato oggettivo di una contraddizione, di una pittura irresistibile nonostante la sua durezza, nonostante esteriormente non esprima alcun logico elemento di seduzione ad ogni costo. Esiste di certo, dunque, un’universalità di quel “mistero”, che contro ogni logica trasforma un’immagine nella trasfigurazione di se stessa.
E’ forse questo mistero quello che ormai meccanicamente chiamiamo “pittura”?
Paul Beel è un pittore isolato e solitario. Un uomo che rifugge le ribalte ed i convivi, che non si nutre di apparenza e superficie, ma che coltiva e difende spietatamente nel silenzio del suo sguardo la capacità del “vedere” oltre l’apparenza: il dono più fondamentale per un pittore. Beel vede oltre le forme e attraverso la pittura trascende la realtà. Quello che finalmente vediamo sulla tela dipinta non corrisponde a nulla di reale, di tangibile, si sensualmente scrutabile. La realtà si limita ad una forma, ma il gioco del realismo inizia e finisce lì. Attraverso la pittura Beel trascende la realtà, superandone il visibile, e la trasforma in Bellezza pura, creando uno spazio impossibile fra l’immagine e il suo spirito, fra inquietudine e Bellezza. Questo spazio, quel qualcosa che Picasso poneva fra la tela ed il colore, è nuovamente l’espressione più compiuta del “fare Pittura”, dal quale scaturisce fatalmente la seduzione di un mistero inafferrabile.
“Troppo vero!”. Con queste parole, quasi sdegnosamente, Papa Innocenzo X, quel Giovanni Battista Pamphilj considerato l’uomo più brutto e corrotto della cristianità, si rivolse a Diego Velázsquez dopo aver visto il ritratto che questi gli aveva dipinto. Quello che è considerato uno dei più importanti dipinti della storia dell’arte occidentale, se non addirittura il più grande ritratto mai realizzato, conserva in se quel “mistero” che rivive nella pittura di Paul Beel. Pur ritraendo, ed in maniera audacissima per il tempo, un personaggio sordido e corrotto, sfigurato esteriormente dalla scrofola e nell’anima dalla corruzione morale, Velázsquez realizza un dipinto dalla bellezza assoluta. La stessa bellezza che lo spagnolo, memore della lezione fondamentale del Merisi, ha saputo infondere nei suoi soggetti “bassi”, elevandoli attraverso la pittura ad autentici dei ed eroi del suo tempo (chi sono i santi caravaggeschi o gli dei dell’Olimpo velázsquiano se non poveri cristi raccattati per strada in cambio di un tozzo di pane ed un bicchiere di vino?). Forse è proprio in quel momento, quasi quattro secoli fa, che inizia a formarsi quell’utopia rivoluzionaria di un’arte che scaturisce dal basso (concetto che si realizzerà pienamente con i Lumi francesi, due secoli dopo Caravaggio).Si approda in questo momento alla presa di coscienza di un’immanenza divina che si estende a tutto il creato e che nega di fatto la convinzione fino a quel momento radicata di un’elitaria trascendenza: un inedito approccio alla realtà che riconosce ed infonde pari dignità tanto ai soggetti più aulici quanto a quelli più sordidi.
Beel, allo stesso modo, non può e non vuole raccontare altro mondo che non sia il suo, si nega altra realtà che non sia quella che quotidianamente egli incontra, vive, vede. E che attraverso la sua pittura acquista visibilità, espressione, voce, dignità.
A proposito di Beel si è spesso accostata la sua pittura a quella di Lucian Freud, sulla base di un’immediatezza che non risolve né fornisce soluzione ad mistero profondamente diverso. Fermarsi alla superficie di un dipinto, non interrogandosi sul suo mistero ed accontentandosi d’immediate corrispondenze, è un atteggiamento abusato nel nostro tempo e non privo di ragioni. Il pedissequo scimmiottare le altrui invenzioni, o ad esse ricondurre tutto, è una delle più terribili conseguenze dell’afasia contemporanea. In Beel la sua apparente vicinanza a Freud, di contro, è più da ricercare in una comune radice anglosassone, e più ancora in quella fedeltà verso la figura, ed il corpo in particolare, che rappresenta la caratteristica più consolidata dello stile nazionale americano, totalmente contrapposto al cubismo ed agli astrattismi derivati dell’antico continente. In più vi è un’inevitabile sorta d’ideale democratico, di spirito “pop” (non Pop in senso stretto si badi bene), la capacità tutta americana, non priva di colossali contraddizioni, di vedere oltre le barriere sociali di saper individuare il mistero del visibile anche nelle più apparentemente insignificanti immagini del quotidiano (Warhol docet).
In ragione di questo Beel è un pittore estremamente attento ad un mondo ai confini della società. I protagonisti “caravaggeschi” dei suoi dipinti non hanno grandezze da celebrare, non hanno nulla di straordinario in apparenza, non di rado nemmeno una bellezza eclatante che non sia il bagliore luminoso del loro sguardo, della loro anima. Beel non dipinge mai ritratti, non rinchiude in un’immagine un solo carattere, una sola storia, una sola inquietudine. Piuttosto egli coglie e rappresenta singole moltitudini, arrivando in fondo alle singole essenze e lì, tra oggetti senza dignità e storie senza storia, ritrovare la Bellezza dell’Uomo.

Avete mai osservato lo sguardo di Paul Beel? Siete mai stati in sua compagnia? Avreste sentito su di voi il peso di quello scrutare, il peso di quei silenzi attraverso i quali egli comunica. Egli non è un uomo che usa le parole per comunicare: è un pittore, un uomo d’immagini, di tele e colori, pennelli e tubetti. Paul Beel osserva e ascolta. Ma non si può essere pittori se non si vive. Beel vive la sua vita, la realtà del suo quotidiano proteso fra l’idealità divina della sua arte e la sensuale, corruttibile vulnerabilità della sua carne. Ecco perché la Bellezza dell’Uomo in lui si rivela attraverso le crepe di umanità apparentemente senza immagine, sotto corazze che, come la sua, nascondono, lo splendore apocatastico[1] dell’animo: la sua pittura tutto eleva e tutto redime perché alla fine anche l’inferno finirà e tutto tornerà all’idea originale.


Alberto Agazzani
Isola di Mykonos, settembre 2010


[1] Da Apocatastasi (greco: αποκατάστασις, apokatástasis) è un termine dai molteplici significati a seconda degli ambiti (principalmente religiosi e filosofici) in cui è usato. Letteralmente significa "ritorno allo stato originario", "reintegrazione". Nello stoicismo l'apocatastasi indica il "ristabilimento" dell'universo nel suo stato originario, e si collega alla dottrina dell'eterno ritorno: quando gli astri assumeranno la stessa posizione che avevano all'inizio dell'universo, avverrà una grande conflagrazione (ἐκπύρωσις, ecpirosi), e il tempo e il mondo ricominceranno un nuovo ciclo (πάλινγένεσις, palingenesi), ovvero "che nasce di nuovo". Secondo alcuni stoici tale ciclo sarà identico al precedente, secondo altri non necessariamente uguale. Nel neoplatonismo con apocatastasi si indica il ritorno dei singoli enti all'unità originaria, all'Uno indifferenziato da cui l'intera realtà proviene, un ritorno possibile tramite l'ascesi filosofica. Nel Cristianesimo, secondo Origene alla fine dei tempi avverrà la redenzione universale e tutte le creature saranno reintegrate nella pienezza del divino, compresi Satana e la morte: in tal senso, dunque, le pene infernali, per quanto lunghe, avrebbero un carattere non definitivo ma purificatorio. I dannati esistono, ma non per sempre, poiché il disegno salvifico non si può compiere se manca una sola creatura. (Wikipedia)


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